Negli ultimi anni i cambiamenti climatici stanno condizionando sempre di più l’agricoltura che, inevitabilmente, si trova a dover fronteggiare eventi meteorologici estremi come piogge eccezionali alternate a periodi di siccità sempre più lunghi e frequenti, inondazioni e perdite di raccolto, le cui conseguenze portano a danni irrimediabili alle risorse naturali e, non ultimo, ad una crescente perdita o riduzione delle possibilità di reddito da parte degli agricoltori.
Proprio il settore agricolo contribuisce esso stesso in modo significativo al cambiamento climatico in quanto responsabile di circa il 10% delle emissioni totali di gas serra (GHG) in Europa. Per decenni l’agricoltura è stata caratterizzata dall’utilizzo sempre più intensivo del suolo, una semplificazione dei sistemi colturali e non da meno l’aumento dei costi di produzione.
Da qui alcune considerazioni sulle lavorazioni tradizionali del terreno, che in genere implicano consumi energetici rilevanti, aumentano il rischio di erosione del suolo, promuovono un rapido processo di mineralizzazione della sostanza organica, possono contribuire al peggioramento della struttura del suolo ed aumentando la superficie esposta all’aria portano ad una maggiore evapotraspirazione dell’acqua del suolo.

L’adozione da parte delle aziende agricole di pratiche “amiche del clima” può contribuire nel tempo a porre un freno all’aumento delle emissioni dei gas serra e al depauperamento delle risorse disponibili (sostanza organica, risorse idriche, ecc.), rendendo così le aziende agricole più resilienti ai cambiamenti e più sostenibili anche da un punto di vista economico. Tra le pratiche agricole che il progetto Solmacc propone ed incentiva troviamo la minima lavorazione (minimum tillage). La minima lavorazione consiste generalmente in lavorazioni meccaniche che riguardano solo i primi 5-15 centimetri di suolo. Il presupposto per poter lavorare in questo modo è l’assenza di compattamenti e suole di lavorazione che possono sfavorire lo sviluppo radicale.

Caratteristiche principali della minima lavorazione:
– il suolo non subisce alterazioni, in quanto non c’è nessuna operazione che rivolti il terreno.
– l’utilizzo di colture permanenti o colture di copertura oppure con residui vegetali della coltura precedente.
– rotazioni colturali diversificate, che favoriscono i microrganismi del suolo e contrastano il diffondersi delle malerbe e di fitopatologie ed insetti specifici.
– Una ridotta lavorazione del terreno riduce le emissioni di gas-serra in due modi: riduce l’uso di energia fossile ed accresce gli stock di carbonio nel suolo. Migliora i cicli dei nutrienti, riduce l’erosione del suolo e la rimozione dei nutrienti.
Gli aspetti positivi legati alla minima lavorazione sono individuabili nel fatto che i residui colturali rimangono in buona parte in superficie e ne viene facilitata la degradazione, in questo modo si creano le migliori condizioni nel terreno per la semina e al contempo per l’iniziale sviluppo dell’apparato radicale ed inoltre, si riducono le perdite di acqua per evaporazione.

Elemento fondamentale di questa tecnica è il lavoro svolto dai microrganismi e dalla microfauna naturalmente presenti nel terreno e che si nutrono della sostanza organica apportata dalle colture. Il successo di queste tecniche di lavorazione si fonda sulla decomposizione lenta della sostanza organica, sulla migrazione dei suoi componenti in profondità e sulla costituzione di un nuovo equilibrio strutturale del terreno. Il mantenimento dei residui vegetali, il minor numero di interventi di lavorazione consentono una minor mineralizzazione della sostanza organica, che di conseguenza porta al miglioramento della stabilità della struttura del suolo, una maggiore disponibilità di elementi nutrivi per le colture, un maggior sviluppo di flora microbica, un abbassamento delle perdite di acqua e minori emissioni di gas serra CO2.