di Luca Colombo (Firab)
Quanti – e quali – passi deve fare il biologico per arrivare al castello del 25% di SAU in 10 anni? Uno studio appena pubblicato ha analizzato i dati dell’evoluzione del biologico italiano nella sua progressione verso i traguardi ambiziosi sanciti dall’Unione Europea, dedicando particolare attenzione a quei passi del gambero che fanno indietreggiare il settore, che pur incede avanti tra alcuni da canguro e altri da formica.
Se letti con i capricci di Regina Reginella, infatti, sembrano più comprensibili i paradossi che legano un settore in crescita, una politica ondivaga, aumento e regressione di aziende biologiche tra regioni e annate.
Con la fede e con l’anello
Negli ultimi 20 anni, il settore biologico si è ingrandito significativamente in Europa grazie al sostegno accordato dalle politiche settoriali e ai crescenti consumi, con una domanda capace di stimolare in maniera persistente l’offerta. Eppure, in questo quadro espansivo, diversi Paesi UE hanno registrato periodiche flessioni del numero di aziende biologiche. Lo stesso dicasi per l’Italia che dal passaggio di secolo ha vissuto un’alternanza di passi innanzi e indietro fino al 2011 quando la marcia avanti si è tradotta in una costante tendenza positiva nell’evoluzione di operatori e superfici. Eppure, dal 2016 si rivedono i passi del gambero per diverse regioni del Sud Italia che rappresenta l’area di maggior sviluppo del biologico per aziende ed ettari.
Da qui l’esigenza di comprendere meglio questi capricci per capire dimensioni e traiettorie dei passi, le motivazioni che li muovono e gli esiti possibili dell’abbandono del sistema di controllo e certificazione delle aziende bio. L’indagine effettuata dal CREA Politiche e Bioeconomia e dalla Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica (FIRAB) ha confrontato i dati, verificato l’attuazione delle politiche, realizzato varie interviste ad aziende fuoriuscite e acquisito le opinioni di operatori e Autorità regionali.
E l’abbandono della certificazione biologica sembra effettivamente originare dall’arbitrarietà di Reginella, piuttosto che dall’esaurimento del suo potenziale: si rinuncia infatti al sistema di controllo e certificazione per cause politiche, economiche e regolatorie. Più limitatamente, di ordine tecnico.
È una sequenza di diversi (para)dossi a intralciare il cammino.
Con la punta di coltello
Il mercato rappresenta un primo fronte critico per le aziende bio che lasciano la certificazione, particolarmente nel comparto zootecnico che risulta più penalizzato e penalizzante. Aziende che non riescono a promuovere o avvantaggiarsi della cooperazione territoriale o lungo la catena del valore, che subiscono la competizione delle importazioni su talune filiere bio, che non intercettano quella parte di Acquisti Pubblici Verdi, quali quelli orientati alle mense scolastiche od ospedaliere, che fanno delle Amministrazioni Pubbliche un importante acquirente del biologico. Si viene così a determinare un primo (para)dosso di un settore in crescita premiato dai consumi che risulta al contempo segnato da un’emorragia di aziende che si sganciano dal sistema di certificazione. (Para)dosso duplice: aziende che si decertificano perchè il mercato non paga, e aziende che puntano su solidità reputazionale e consumi locali rinunciando volontariamente alla certificazione perché non presenta vantaggi a fronte di oneri percepiti come eccessivi.
Il secondo (para)dosso è che le buone intenzioni sul rafforzamento dei meccanismi di monitoraggio e garanzia hanno lastricato di ostacoli la via del biologico, regolato e riconoscibile agli occhi dei consumatori grazie alla certificazione, che risulta però inidonea a garantire una premialità commerciale a tutti gli agricoltori, inducendone alcuni a rinunciarvi. Il sistema di controllo e certificazione grava sulle spalle degli operatori per gli eccessi di burocratizzazione che comporta: le procedure rinforzate negli ultimi anni hanno prodotto l’effetto perverso di ingabbiare le aziende dentro regole e formalità sproporzionate. La ridondanza delle norme nazionali che integrano la legislazione europea finisce così per rappresentare un aggravio che concorre a determinare un’erosione delle aziende bio, soprattutto quando le disposizioni aggiuntive vengono percepite come ingiustificate o persecutorie. Sono le bizze di Regina Reginella che, pur decretando passi avanti, lega al bio una palla al piede.
Si pensi poi a chi per arrivare al Castello deve fare passi commisurati alle sue dimensioni: non andrebbero adeguati gli stessi oneri burocratici, anche favorendo il ricorso a efficaci e percorribili sistemi collettivi di certificazione su cui investire in chiave di familiarizzazione degli operatori e di conoscenza da parte dei consumatori? Un’adozione più diffusa di tale opzione aiuterebbe le piccole aziende a restare nella ‘riconoscibilità’ del settore, evitandone gli aggravi della certificazione ordinaria.
Lo studio sull’uscita dalla certificazione ci consegna anche un’apparente stranezza, in quanto i passi da muovere in bio non sembrano temere le asperità del terreno: la familiarizzazione tecnica con gli approcci gestionali e con il sistema di regole o l’uso dei mezzi tecnici ammessi in biologico non rappresentano infatti fattori particolarmente limitanti, a fronte di una ormai compiuta maturità del settore e di un accresciuto quadro di competenze delle aziende raggiunto in 30 anni di codificazione e regolazione del metodo nell’UE. È il paradosso dei (para)dossi: la rinuncia alla semplificazione chimica non è dunque sfida esiziale e se le aziende lasciano il bio non è tanto dovuto al non riuscire ad apprendere un modo diverso di produrre.
Ma se c’è un ambito in cui Reginella è regina sono le politiche, ossia qualità, quantità e continuità d’uso degli strumenti di incentivazione dell’agricoltura biologica. È qui che le bizzarrie si esercitano con maggiore aleatorietà: le Regioni stanziano le risorse per le aziende biologiche con discontinuità, rendendo incerto e precario il supporto, privando le aziende delle certezze necessarie a programmare attività e costruzione del reddito, inducendone alcune ad abbandonare l’adesione al sistema di controllo. È l’ultimo (para)dosso, quello più impervio: la priorità al bio indicata dalle strategie UE viene depotenziata dall’implementazione politico-amministrativa nazionale e regionale, soffocando quella crescita del settore che, nella ciclicità dei Programmi di attuazione della politica agricola, vede periodicamente perdere per strada aziende che non si sentono più sostenute nel loro cammino.
Nelle sue conclusioni, lo studio suggerisce così a Regina Reginella quali e quanti (para)dossi vanno spianati, abbandonando aleatorietà e arbitrarietà, e quali lacciuoli sciogliere per agevolare passi che possano fare avanzare il bio in maniera coesa.
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