Il genetista Salvatore Ceccarelli e il presidente di AIAB Vincenzo Vizioli rispondono punto per punto all’articolo dal titolo “Il biologico? Sì, fa bene. Ma solo a chi lo produce” firmato dalla Senatrice Cattaneo e uscito su D di Repubblica, lo scorso 21 luglio 2018

Roma, 27 luglio 2018 – Nella sua rubrica sul settimanale D di Repubblica, la senatrice Cattaneo fa il punto sull’agricoltura biologica, che può contare sui sussidi pubblici. Ma è poco salutare per le tasche di chi acquista i prodotti e, allargando lo sguardo, per la popolazione mondiale.

Limitandoci ai soli fatti citati nell’articolo:

  1. Sussidi pubblici

 Dice l’articolo “l’agricoltura biologica può contare su sussidi pubblici”

Perché non ricordare che tutta l’agricoltura vive di sussidi previsti dalla PAC (Politica Agricola Comunitaria) anche quella convenzionale, i cui risultati negativi di impatto sull’ambiente e sulla salute sono oggi al centro della discussione sulla riforma e che il biologico è l’unico metodo di produzione per cui il premio è subordinato al rispetto di regole sancite in un regolamento europeo (n. 884 del 2008) e controllate da organismi di controllo.

  1. La qualità

 Dice l’articolo “Fra gli equivoci su cui si regge il racconto del prodotto “naturale=buono” c’è il concetto stesso di “biologico” che nulla ha a che fare con la qualità in sé dei prodotti (proposta come superiore) o del presunto maggiore valore nutritivo (che, secondo un’indagine di Altroconsumo, non hanno). Il biologico è “solo” una certificazione di una procedura di produzione, non di un gusto o di qualità finali migliori.

A parte la mancata definizione di “qualità” che non è solo il valore nutritivo (che infatti viene tenuto distinto nell’articolo) e che dipende da come viene misurata, il punto è che la letteratura[1] sottolinea, come si vede bene dalla Figura 4 (basata su 59 studi) del lavoro di Reganold e Wachter, che il valore nutritivo è soltanto UNO degli aspetti, e non necessariamente il più vantaggioso, dell’agricoltura biologica. Un corretto confronto scientifico tra agricoltura biologica e convenzionale non può non tener conto di tutto il resto

  1. Uso di agrofarmaci

Dice l’articolo: “… un’azienda biologica rinuncia all’uso di fitofarmaci e concimi di sintesi …. ma non agli agro farmaci autorizzati da protocolli di certificazione come il rame il cui impatto ambientale è tutt’altro che nullo visto che resta nel terreno per decenni”

Il rapporto ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha recentemente confermato il continuo aumento, nelle acque superficiali e profonde, di principi attivi chimici (259 quelli rilevati) utilizzati in agricoltura convenzionale. Il primo pesticida ritrovato nelle acque profonde risulta essere l’atrazina, diserbante il cui utilizzo è vietato dal 1992, quindi ancora presente nell’ambiente dopo 24 anni. In quelle superficiali invece, il più presente è il glifosato insieme al suo metabolita Ampa. Un pesticida che gode dell’ennesima proroga di altri 5 anni per l’”imparziale” pronunciamento dell’EFSA contro il rapporto dello IARC (Istituto per la ricerca sui tumori dell’OMS) che lo classifica come probabile cancerogeno, vergognosamente basato sullo stesso dossier della multinazionale proprietaria del prodotto.

Che il rame crei problemi di accumulo nel suolo, non di inquinamento di acqua e falde, l’agricoltura biologica lo sa dalla sua fondazione e diversamente dalle poche multinazionali che detengono la quasi totalità del mercato delle sementi, dei fitofarmaci e, guarda caso, delle case farmaceutiche, stabilisce dei limiti massimi di 6 Kg/ha di media annuale che nei prossimi anni sarà portato a 4 Kg, sperando anche che illuminati ricercatori ricerchino e trovino soluzioni alternative. Attaccare il bio sull’uso del rame che il consumatore non ingerisce perché, se eventualmente presente esternamente al frutto è eliminato con un semplice quanto consueto lavaggio, è dimenticare che c’è un’agricoltura che fa uso di probabili cancerogeni che, purtroppo, mangiamo e beviamo per la presenza inevitabile di residui nel frutto, nell’aria e nelle falde, è quantomeno ardito.

  1. Prezzi

Dice l’articolo: “Chi al supermercato acquista prodotti biologici, invece, crede di scegliere un prodotto vantaggioso per la salute o l’ambiente ed è pronto a spendere tra il 30 al 110% in più. Ma, nella maggior parte dei casi, non sa che da questa maggiore spesa non ci guadagna né l’uno né l’altro.”

Anche qui il confronto non è corretto perché a) si confrontano i prezzi del biologico con quelli del convenzionale senza tener conto che anche la FAO ritiene che questi ultimi siano irrealisticamente bassi; b) da un punto di vista genetico (e questo vale anche per punto successivo) non ci sono, o ce ne sono pochissime, varietà selezionate in modo specifico per l’agricoltura organica per non parlare dei semi che sono pressoché introvabili costringendolo gli agricoltori a chiedere deroghe che vanno a far parte degli obblighi burocratici; e c) le differenze di prezzo riguardano la grande distribuzione ma non certo le filiere corte.

  1. Produzioni e Superfici

Dice l’articolo: “Anzi. Poiché i campi biologici producono molto poco, a parità di prodotto (più costoso) serve più terreno, circa il 40% di suolo in più.

Non è chiaro da dove vengano questi dati. Una recente meta analisi[2] parla di riduzioni (citate dagli agricoltori) del 27-34% – nelle prove parcellari si scende al 20-25% con minimi dell’8%. Lo stesso studio parla di grosse differenze tra colture (perdite maggiori per la soia, minori per mais e grano) e della relazione tra clima e produzione – nel caso del mais le differenze si attenuano moltissimo (vedi Fig. 2 del lavoro citato) negli anni siccitosi, cosa però che non si osserva nella soia. Ci sarebbe molto più da dire sul fatto che a livello sperimentale, le differenze si attenuano molto (vedi ad esempio Campanelli e Canali[3]).

Sulla necessità del 40% di suolo in più, Muller e colleghi su Nature Communications[4] la pensano diversamente. Infatti dicono che è vero che una conversione al 100% di biologico richiederebbe più suolo, ma allo stesso ridurrebbe sia l’uso eccessivo di azoto che quello di pesticidi. Ma Muller e colleghi vanno molto oltre, e considerano l’effetto congiunto dell’aumento delle superfici a biologico, insieme a diversi effetti del cambiamento climatico sulle produzioni agricole (nullo, medio, alto), della riduzione degli sprechi di produzioni agricole (oggi stimate al 30%) e della riduzione delle superfici coltivate per produzioni destinate agli animali. In questo quadro così complesso, ci sono molte combinazioni di questi diversi fattori che comporterebbero in realtà una diminuzione delle superfici coltivate. Per esempio, mentre nella situazione più virtuosa (100% biologico, 100% di riduzione delle superfici coltivate per produzioni destinate agli animali, e sprechi di produzioni agricole ridotti del 50%, ci sarebbe bisogno solo del 7% di suolo in più con un effetto molto negativo del cambiamento climatico. Ma già con un effetto medio del cambiamento climatico, e tenendo fermi gli altri fattori, si risparmierebbe il 7% di suolo e con un effetto nullo del cambiamento climatico addirittura il 18%.

  1. La Rivoluzione Verde

Dice l’articolo: “La Rivoluzione Verde ha dimostrato che l’agricoltura più sostenibile è quella intensiva: grazie ai nuovi fertilizzanti, agli agrofarmaci e alla meccanizzazione dell’agricoltura (tutti odierni nemici delle tendenze “bio” e del mitologico “ritorno alla natura”) dal 1950 in poi la resa del frumento è quadruplicata, con la conseguente possibilità di sfamare più persone, senza che aumentasse in parallelo la superficie coltivata.

Che dire? Ormai sono rimasti veramente in pochi a negare l’evidenza che, pur avendo avuto il merito immediato di scongiurare una carestia, l’aver proseguito su quel modo di fare sviluppo agricolo ha creato danni irreversibili. Perfino Swaminathan[5], uno dei pionieri della Rivoluzione Verde, ha avuto grossi ripensamenti, ma leggete cosa dice Marci Baranski[6] delle manipolazioni scientifiche che hanno accompagnato la nascita della Rivoluzione Verde.

  1. Le Biotecnologie Agrarie

Dice l’articolo: “Accantonato il biologico dei non-vantaggi, per produrre e nutrirci riducendo l’uso di agrofarmaci possiamo ricorrere alle biotecnologie agrarie: un tempo si mischiavano genomi a caso, ora possiamo cambiare poche lettere del DNA e rendere la pianta resistente a parassiti riducendo irrorazioni di antiparassitari e erbicidi. Invece delle trenta irrorazioni, le mele potrebbero resistere autonomamente.”

Per fortuna, come ormai si fa da oltre trent’anni, si usano termini come “possiamo” e “potrebbero”, ma ancora continuiamo a mangiare cibo che, al 99%, proviene da varietà ottenute con i metodi convenzionali, incluse quelle ottenute direttamente dagli agricoltori. Prima furono i marcatori molecolari che sono comparsi e sostituiti talmente in fretta da altri con un ritmo che non dava tempo ai primi di essere utilizzati in pratica e che quindi non hanno fatto in tempo a mantenere alcuna delle promesse che avevano suscitato. Poi furono gli OGM di cui però l’articolo non parla come d’altra parte molti fanno da qualche tempo perche’ nel frattempo è arrivato il Gene Editing (“cambiare poche lettere del DNA”).

Qui ci sono due cose che l’articolo non dice. La prima è che secondo i risultati di una ricerca condotta alla Stanford University (California)[7] e pubblicata su Nature Methods, è stato osservato un numero di mutazioni inattese in topi sottoposti al Gene Editing. E’ vero che poi il lavoro è stato ritirato (contro il parere di 4 dei 6 autori), ma a luglio del 2018 ne è uscito un altro su Nature Biotechnology[8] il quale indica che il metodo causa alterazioni cromosomiche che possono avere conseguenze patologiche. Insomma cominciano a sorgere dubbi sul fatto che la tecnica sia “ragionevolmente specifica” come dice testualmente l’ultimo articolo citato.

La seconda è che la maggior parte dei caratteri agronomicamente importanti nelle piante sono controllati da molti geni distribuiti sui vari cromosomi – questo lo sapevamo prima dell’avvento della genetica molecolare la quale lo ha confermato. Per cui, anche ammettendo per un momento che la tecnica sia precisa, non si tratta affatto di “cambiare poche lettere del DNA”.

Gentile Senatrice Cattaneo  sarebbe utile che le sue uscite contro il biologico, per Lei unico problema dell’agricoltura moderna, che hanno ormai una periodicità sistematica, per non sembrare sponsorizzate, fossero un po’ più obiettive, anche per ribadire quel ruolo di scienziato che Lei stessa non trascura di ricordare.

Salvatore Ceccarelli, Vincenzo Vizioli

Nella figura in alto i petali marroni rappresentano aspetti produttivi, quelli blu aspetti ambientali, quelli rossi aspetti economici e quelli verdi aspetti legati al benessere

NOTE

[1] Reganold JP, Wachter JM. 2016. Organic agriculture in the twenty-first century. Nature Plants 2:1-8 doi: 10.1038/nplants.2015.221

[2] Kravchenko AN, Snappa SS, Robertson GP. 2017. Field-scale experiments reveal persistent yield gaps in low-input and organic cropping systems. Proceeding of National Academy of Sciences USA, 114 (5): 926–931

[3] Campanelli, G., Canali, S., 2012. Crop Production and Environmental Effects in Conventional and Organic Vegetable Farming Systems: The Case of a Long-Term Experiment in Mediterranean Conditions (Central Italy). Journal of Sustainable Agriculture, 36(6): 599-619

[4] Muller A, et al. 2017. Strategies for feeding the world more sustainably with organic agriculture. Nature Communications 8, Article number: 1290 doi:10.1038/s41467-017-01410-w

[5] Swaminathan MS. 2007. Can science and technology feed the world in 2025? Field Crops Research 104: 3–9

[6] Baranski MR. 2015. Wide adaptation of Green Revolution wheat: International roots and the Indian context of a new plant breeding ideal, 1960 – 1970. Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences 50:41-50

[7] Schaefer KA ei al. 2017. Unexpected mutations after CRISPR–Cas9 editing in vivo. Nature Methods volume 14, pages 547–548

[8] Kosicki M, Tomberg K, .Bradley A. 2018. Repair of double-strand breaks induced by CRISPR–Cas9 leads to large deletions and complex rearrangements