Dietro il velo luccicante dei successi annunciati a Glasgow, a fine COP26, c’è sempre la stessa realtà: ovvero l’incapacità a trovare un accordo globale sulle politiche climatiche e l’ostinazione a non vedere nell’agricoltura uno degli elementi chiave per invertire seriamente la rotta.
E’ vero, alcuni risultati sembrano esserci: 45 governi hanno previsto di investire in azioni 4 miliardi di dollari per passare a sistemi agricoli più sostenibili; è stata lanciata un’iniziativa globale per raggiungere entro il 2030 cento milioni di agricoltori impegnati nella trasformazione dei sistemi alimentari attraverso una piattaforma multi-stakeholder convocata dal World Economic Forum (WEF) che coinvolge organizzazioni di agricoltori, società civile, imprese e altri soggetti; la Banca Mondiale, attraverso il suo Climate Action Plan, ha dichiarato il suo impegno a spendere 25 miliardi di dollari all’anno (fino al 2025) in finanziamenti per il clima, con particolare attenzione all’agricoltura e ai sistemi alimentari; poi c’è la notizia che arriva dalle grandi compagnie private  (un centinaio) che si sono impegnate a diventare “Nature Positive”, con catene di supermercati che hanno dichiarato di voler ridurre il loro impatto ambientale e climatico.
Questi, insieme agli impegni su deforestazione e rafforzamento delle tecnologie agricole, possono sembrare buoni presupposti per perseguire l’auspicato cambiamento ma, a uno sguardo solo poco più attento, questo rimane un traguardo lontanissimo.
Non si può infatti puntare a un’ agricoltura sostenibile come fosse un mero risultato di un’equazione, senza guardare alla complessità dei sistemi alimentari. Così come non si può guarire una persona senza uno sguardo che la abbracci totalmente.
“Tutto ciò – dice Giuseppe Romano, presidente di AIAB – ci spinge a valutare i risultati della Cop26 come l’ennesimo fallimento intergovernativo che lascia spazio a iniziative del mondo reale in chiave di neutralità climatica sulle quali però c’è ancora molto da fare. Per quello che ci riguarda andiamo avanti nella direzione che riteniamo più giusta, spingendo la politica italiana non solo a perseguire seriamente le strategie indicate dall’Europa in tema di politiche agricole (Green Deal) ma ad andare oltre, investendo su una vera transizione agroecologica dei sistemi di produzione alimentare, che metta al centro la biodiversità e la fertilità dei suoli. Il cibo non può essere un prodotto industriale ottenuto solo grazie alle nuove tecnologie. Senza nulla togliere all’importanza di queste ultime, il loro ruolo non deve diventare centrale rispetto alla ricchezza del suolo e alla dignità di chi si prende cura della terra. Questi obiettivi possono essere raggiunti solo ampliando sempre più un biologico innovativo sì, ma che mantenga il suo sguardo d’insieme. E soprattutto che non diventi appannaggio delle multinazionali ma rimanga in mano agli imprenditori agricoli e ai contadini che amano e rispettano la terra che coltivano”.