di Luca Colombo (Firab)
(l’articolo è stato pubblicato lo scorso 21 maggio, su L’Extraterrestre, l’inserto settimanale de Il Manifesto che esce tutti i giovedì)
Che la pandemia abbia messo sotto stress il sistema economico come quello nervoso è lapalissiano. Che un effetto collaterale sia dunque quello di far emergere incoerenze tra i gratificanti risultati di mercato e un sofferente cahier de doléance è dunque solo apparente contraddizione.
È quanto emerge dalla rilevazione sull’impatto che il Covid-19 ha avuto sul settore bio che la Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica (FIRAB) ha condotto dal 25 marzo al 30 aprile, coprendo il grosso del periodo di lockdown duro e puro. Un sondaggio di cui la rappresentanza del bio italiano (AIAB, Assobiodinamica e Federbio) ha condiviso urgenza e utilità.
Le 400 risposte ricevute da aziende biologiche di tutta Italia trasudano infatti di difficoltà. Questo nonostante dati di consumo di prodotti biologici che indicano per il mese di marzo, in pieno impatto sanitario, psicologico ed economico, un aumento del 19.6% delle vendite di biologico nella grande distribuzione, secondo dati Assobio-Nielsen.
Al questionario FIRAB ha risposto un campione di aziende ben distribuite sul territorio nazionale e rappresentativo sia della produzione primaria che della trasformazione; anche in termini di classi di fatturato le risposte coprono varie dimensioni economiche con circa metà dei rispondenti appartenenti ad aziende di piccola scala (con fatturato entro 50mila euro all’anno), un terzo con introiti entro i 250mila, ma anche aziende con giri d’affari di maggiore entità: una su venti entro i 500mila e una su dieci che oltrepassa il milione, in alcuni casi anche per valori significativi. Risposte che qualificano il campione come particolarmente esemplificativo se non perfettamente rappresentativo del biologico italiano.
Tre su quattro delle risposte ricevute hanno denunciato impatti di varia entità, la cui serietà si evince analizzando l’insieme dei responsi. Un primo indicatore è fornito dalla tenuta in termini di liquidità che per due terzi delle aziende è circoscritta tra zero e tre mesi. Su questo fronte, le situazioni più critiche si registrano tra le aziende di più piccole dimensioni: per queste la vendita diretta o i mercati locali costituiscono importanti canali di sbocco commerciale che si sono paralizzati con la prima ondata della pandemia. Lo stesso è avvenuto per il settore della ristorazione e delle mense scolastiche che assorbono molta della produzione bio nazionale.
La limitazione negli spostamenti durante il lockdown ha prodotto infatti come principale conseguenza la limitazione nella commercializzazione dei prodotti o drastiche cesure su quell’importante fronte di integrazione al reddito aziendale caratterizzata da agriturismi, fattorie didattiche e ristorazione aziendale. Mobilità ridotta che invece ha colpito meno aspetti legati alla conduzione aziendale o all’attività produttiva, ma la stagione a cavallo tra inverno e primavera, lontana da fasi ad alta intensità di manodopera come la raccolta, può avere contribuito a lenire questi aspetti.
La rilevazione puntava anche a fare emergere esigenze ed aspettative delle aziende rispetto alle priorità di intervento e di politiche. Si è chiesto quale tipologia di supporto si ritenesse maggiormente necessaria e la risposta prevalente – quasi sorprendente – è stata di sburocratizzazione, tema che prevale sulle esigenze finanziarie e di sblocco di fondi, anche se molto probabilmente si intreccia con queste.
Questo il quadro di sintesi che emerge dall’analisi dei riscontri alle principali questioni indagate. Ma, come anticipato, il grido di lucido dolore che si rivela tramite le tante risposte alle domande aperte previste dal questionario traduce probabilmente meglio il disagio economico e psicologico che ha accompagnato la pandemia. Un aspetto sicuramente secondario, ma raramente i sondaggi si arricchiscono di tante libere indicazioni a complemento delle risposte multiple, quasi si cercasse ascolto e condivisione emotiva.
Un esempio un po’ verboso? “Il costo del personale per le aziende agricole è da sempre un problema enorme, nel biologico 100 volte di più, i lavori in campagna sono infiniti, non c’è riposo, non manca mai il da fare e si è sempre indietro. Ecco, degli sgravi importanti sul costo del personale sarebbero un bell’aiuto. In tanti desiderano lavorare in campagna, noi avremmo anche bisogno, ma non possiamo permetterci di assumere, troppo costoso.” Una chiave di lettura utile anche sul fronte regolarizzazione dei migranti, se quella dei diritti non fosse sufficiente. Molta forza emerge anche sul fronte della liquidità che si chiede veloce ed efficacie a fronte di mancati pagamenti da clienti e cessate forniture al mondo della ristorazione.
Ed è l’appello contro inutili gravami burocratici che ha prodotto grande eco in quello che può essere considerato lo speakers’ corner della rilevazione, la buca delle lettere della terapia collettiva: sarà il male che aggrava il Paese e le persone, oltre che le aziende, che ne registrano peso e lentezza non compensati da una proporzionale efficienza nell’erogazione di servizi o nell’esecuzione dei controlli, ma che il leviatano burocratico rappresenti la priorità assoluta su cui intervenire ancor prima di una più diretta e veloce mitigazione delle difficoltà economico-finanziarie indica chiaramente il superamento della soglia di tolleranza. Può parimenti indicare una persistente lucidità delle aziende nell’affrontare la crisi, coscienti che a fronte della montagna di soldi a debito che lo Stato erogherà, un non piccolo gruzzolo sarebbe già disponibile sotto forma di fondi comunitari a sostegno della PAC e delle Misure di Sviluppo Rurale che spesso giacciono nelle casse ministeriali e regionali in attesa di timbri e ispezioni documentali funzionali più a coprire le spalle degli apparati pubblici che a verificare illeciti. “Semplificare, semplificare, semplificare. Portare all’essenziale la burocrazia” diventa quindi quasi uno slogan.
Emerge al contempo anche una visione lungimirante che riflette le diverse caratteristiche che ha assunto il biologico italiano da ormai più di un decennio: se da una parte si sollecita un sostegno all’export e alla promozione del prodotto bio nazionale, di cui potrebbero ad esempio beneficiare i produttori di vino e olio bio, particolarmente penalizzati dalla sostanziale chiusura dei principali canali commerciali vocati (export e ristorazione), dall’altra si chiede di “valorizzare l’agricoltura familiare tradizionale che sta portando avanti il paese e togliere benefit immeritati all’agroindustria ingannevole”, di promuovere incentivi per il passaggio a un’agricoltura biologica basata su rinnovabili, così come di incentivare gli acquisti pubblici verdi “per esempio con i buoni pasto o nella distribuzione di pasti sovvenzionati da fondi pubblici (come acquisti di alimenti bio certificati, provenienti da filiere corte legate al territorio)”. E proprio il territorio viene talvolta evocato quale tessuto connettivo in un mutuo rapporto identitario con le aziende bio e nella promessa di prospettive di sviluppo armonico: è infatti trasversale la richiesta di attivare campagne di promozione del territorio per riaccendere il volano turistico che rappresenta una fetta consistente del reddito di molte aziende biologiche: “più reti, più circuiti locali e regionali. Sviluppare reti di vendita diretta sul territorio di prodotti biologici” diventa così non solo sintesi, ma indicazione programmatica.
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