La presidenza AIAB
Leggiamo l’articolo del Gambero Rosso che riporta le posizioni che il prof. Moio avrebbe espresso in occasione degli Etna Days e il primo dubbio è ”ma davvero il presidente di OIV, nonchè uomo di scienza e vignaiolo egli stesso può aver detto questo?” Riteniamo, infatti, il profilo scientifico del professor Moio tale per cui sia inverosimile possa affermare che il biologico non abbia fondamento scientifico. In secondo luogo, la reponsabilità che comporta il ruolo istituzionale di presidente OIV ci sembra così importante da non potergli consentire di entrare irresponsabilmente a gamba tesa contro un settore genuinamente Europeo (infatti la maggior parte del vigneto bio mondiale è in Europa) e molto italiano (infatti più del 20% della SAU viticola italiana è gestita con il metodo biologico). Infine, essendo egli medesimo un vignaiolo, ci pare difficile non abbia ben presente le vere sfide poste dal cambiamento climatico.
Noi a Castiglione di Sicilia non c’eravamo, quindi ci terremo il dubbio e diremo la nostra solo sui contenuti dell’articolo, poi chi sia l’ispiratore o l’autore poco conta.
La viticoltura biologica non ha basi scientifiche? È vero proprio il contrario, non solo il biologico ha ripreso e messo in uso il lavoro scientifico sull’agronomia che molta viticoltura convenzionale ha totalmente dimenticato, ma ormai da 30 anni ci sono fior fiore di ricercatori in tutti i paesi europei che dedicano competenza alla viticoltura biologica. La cosa complessa ma fondamentale, ed essenziale da comprendere quando si parla di biologico, è che il metodo bio è una strategia che mette assieme pedologia, scienze del suolo, entomologia, genetica, patologia, fisiologia vegetale e tanta agronomia.
Fare biologico richiede sicuramente più competenze, ma non ci pare affatto un fattore negativo, bensì il miglior modo per qualificare il lavoro in vigna e in cantina e riconoscere le professionalità di viticoltori e cantinieri.
Il biologico non permette di esprimere tipicità? Anche qui è vero proprio il contrario, rispettare il suolo, privilegiare il lavoro dell’apparato radicale, non usare “scorciatoie chimiche” e scegliere il materiale genetico più adatto è l’unico modo per ottenere uve che racchiudono il meglio delle caratteristiche del luogo. Uve che, arrivate in cantina, sono solo “monitorate” e in caso “guidate” durante le fermentazioni, producono vini genuinamente territoriali ed in grado di dare valore alle capacità dei vignaioli. Come diceva uno storico agronomo bio “il terroir non si compera in sacchi” ma si coltiva con competenza, fatica e tanto rispetto del suolo e degli ecosistemi.
Il cambiamento climatico non consentirà più di fare vino biologico? Il cambiamento climatico è la spada di Damocle sulla vita di tutti noi. Ma rimanendo sulla viticoltura, il lavoro sul suolo e sull’agro-eco-sistema che caratterizza il metodo biologico risulta strategico per aumentare la resilienza, la capacità di adattamento dei vigneti ad un clima imprevedibile che ogni anno è diverso dal precedente, con l’unica costante degli eventi estremi, siano essi siccità o forti precipitazioni o grandine o ritorni di freddo o tornadi o picchi di calore.
Il cambiamento climatico sta comportando anche la presenza di nuovi patogeni e parassiti e la maggiore problematicità di alcuni vecchi patogeni, come la peronospora nelle annate piovose. Per affrontare vecchi e nuovi patogeni e parassiti il biologico non usa solo rame e zolfo ma fa un lavoro agronomico di prevenzione e usa un insieme di prodotti e tecniche per la difesa. Come anticipato: il biologico richiede maggiori competenze e spesso più lavoro di precisione, ma di nuovo non ci pare questo un aspetto negativo ma qualificante. Tanto per rimanere sul tema: negli ultimi due anni diverse zone viticole hanno dovuto affrontare situazioni meteorologiche difficili, soprattutto per la gestione della peronospora. Voci riportano che il biologico sia stato in particolare difficoltà, ma ciò non corrisponde alla realtà: nelle zone vocate, dove le viti sono state allevate nel rispetto dell’agronomia e della fisiologia (il che significa anche non spinte oltre produttività tali da compromettere l’equilibrio delle piante) e con la dovuta competenza e tecnologia, il biologico si è difeso bene. Quanto appena scritto evidenzia come il biologico non sia affatto tecnofobico come talvolta descritto. Usiamo ben volentieri la tecnologia e tutta l’innovazione disponibile e molto spesso i vignaioli biologici partecipano alle attività di ricerca in prima persona, come nei diversi progetti di ricerca che negli anni AIAB ha gestito e su cui ora è anche attiva la fondazione per la ricerca creata da AIAB, ovvero FIRAB, tra i quali c’è proprio un recentissimo progetto europeo su agricoltura biologica e cambiamento climatico, con specifico focus sulla viticoltura, di cui si può leggere qui oppure qui.
In sintesi, se si rispettano vocazionalità dei territori, si effettua una scelta del materiale vegetale più opportuno (come portinnesto e come varietà, ma laddove possibile anche con il franco di piede), si conosce bene il territorio e le tante scienze necessarie a fare agricoltura, si usa la tecnologia più appropriata, il biologico non solo è possibile, ma è la scelta che garantiche maggior resilienza verso il cambiamento climatico e migliore identità e caratterizzazione del vino.
Un’ultima battuta sulle zone non vocate alla viticoltura: come giustamente dice Mazzilli, laddove non si riesce a fare viticoltura biologica forse non è proprio il caso di fare viticoltura! Però le zone vocate stanno mutando con il clima, questo è un fattore di cui tener conto. Con le caratteristiche climatiche cambia il comportamento delle viti, cosa che ci porta a sottolineare la necessità di portinnesti e varietà in grado di adattarsi. Ma ci servono materiali genetici evoluti nei diversi luoghi, quindi non poche varietà che vanno bene ovunque ma tante varietà che “parlano” e “si trovano bene” nei diversi luoghi. Per far questo non ci servono le TEA ma recuperare le varietà locali facendo ripartire la loro co-evoluzione con i vignaioli, senza pregiudizi verso altre varietà, ottenute con genetica classica, che presentino caratteristiche di tolleranza verso i patogeni, i parassiti e gli eventi climatici più difficili. La vera sfida ora è riportare i vigneti alla longevità.
Ricerca, conoscenza e tecnologia accompagnano chi produce il vino bio anche in cantina. Concordiamo che i difetti non vadano spacciati per terroir, però riteniamo che chi sta producendo vini naturali con competenza sia l’avanguardia di un certo tipo di enologia, che ben si sposa con il biologico e che può contribuire a diversificare le tipologie di viticoltori, vignaioli e vini, la vera ricchezza del mondo del vino europeo.
In chiusura ci preme ritornare sul tema della conoscenza, e siamo certi il prof. Moio concorderà con noi: abbiamo bisogno di ricerca di sistema e di lungo periodo sulla viticoltura biologica (ma i cui risultati andranno poi a beneficio di tutta la viticoltura), così come su tutta l’agricoltura e l’allevamento biologico. Il biologico deve continuare ad evolversi e migliorarsi per farlo serve conoscenza.
E allora guardiamo a quali sono le vere trappole: da un lato la burocrazia che oltre a soverchiare i produttori biologici ha ingabbiato per 4 anni i fondi per la ricerca in biologico del MIPAAF, ora MASAF. Tra i progetti per l’innovazione vintage (dopo 4 anni si può ancora considerare innovazione?) bloccati al Ministero ce ne sono anche diversi proprio sulla viticoltura!
Altra terribile e reale trappola è la comunicazione, qui concordiamo con Moio, che invece di dare informazione attizza conflitti per “vendere copie”e si asserve all’oscurantismo, motivato da interessi tutt’altro che scientifici o agricoli: non è che dopo aver attaccato immotivatamente il biodinamico, ora si vuole affondare i denti sul biologico per preparare il terreno al ritorno trionfante della chimica e allo sdoganamento degli OGM cosiddetti nuovi? Chiediamoci chi ne trae beneficio.
Commenti recenti