La decrescita è una delle strade che portano se non alla pace sociale, alla fine della guerra, che si gioca sempre più sul piano finanziario ed economico. Serge Latouche, economista-filosofo teorico della decrescita e predicatore dell’ “abbondanza frugale” ha portato al Bergamo Festival ieri, 12 maggio, la sua visione per “Fare la pace”, anche attraverso l’economia. «Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio. Ora la volpe è cinese e il pollaio europeo» ha sostenuto senza mezzi termini. E, in pieno semestre dell’ Esposizione, dal palco di Bergamo ha sottolineato: «L’Expo è la vittoria delle multinazionali, non certo dei produttori». L’economista francese ha ribadito come a crescere oggi siano solo le disuguaglianze e la distanza fra chi detiene – e continua ad accrescere- il potere economico e chi ne viene escluso. Ecco perché, secondo Latouche, la decrescita sarebbe garanzia di una qualità della vita più alta, fatta di riscoperta di valori più autentici da poter estendere a tutti. L’economista-filosofo- tra gli animatori della Revue du MAUSS, presidente dell’associazione «La ligne d’horizon», nonnchè professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI e all’Institut d’études du developpement économique et social (IEDES) della capitale francese- ha risposto ad alcune delle domande e delle questioni sollevate da Marco Marzano, sociologo e professore ordinario di Sociologia dell’Organizzazione dell’Università degli Studi di Bergamo.
Non si fa che ripetere che, una volta usciti dalla crisi, il mondo non potrà essere più lo stesso. Come cambia la vita sociale dopo la crisi?
Tutte le elite guardano al dopo crisi. La realtà è che la crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito. Solo un pazzo o un economista può pensare alla crescita. La crescita è sparita negli anni Settanta e da allora non è più riuscita a portare maggior benessere rispetto ai suoi costi. Per 30 anni Alan Greenspan, presidente della Fed ha creato una crescita fittizia con speculazioni e bolle immobiliari. Ora si continua a parlare di crescita: peccato che un + 0,4 % non sia affatto crescita e che servano almeno 3 punti percentuali per creare occupazione. E’ evidente che una società di crescita senza crescita non è possibile, anzi è l incubo totale. Significa disoccupazione. E l’Europa impone l’ austerità fino alla morte. Le diseguaglianze crescenti hanno impatto sulla nostra democrazia.
In Europa tra il 1945 e il 1975 abbiamo avuto trent’ anni di crescita, ma anche di diminuzione delle disuguaglianze, con società più ricche ma anche più eque. Si può tornare alle vecchie ricette keynesiane ?
La festa è finita. La crescita è uscita dai pozzi di petrolio con la prima crisi petrolifera. E le disuguaglianze si sviluppano sino in fondo. Nei 30 anni gloriosi ha funzionato un mito della economia, il trickle-down: per effetto dello sgocciolamento, la marea fa salire sia i pozzi piccoli che quelli grandi. Il Genuine Progress Indicator-Gpi, o indicatore del progresso autentico, rileva come il benessere statistico aumenti fino al 2000, ma evidenzia come i costi siano sempre più elevati. Dallo stress, ai problemi di salute e respirazione per effetto dello smog, giusto per fare qualche esempio. Guadagniamo di più, ma dobbiamo anche spendere di più. Dopo il crollo Lehman Brothers, il benessere vissuto reale crolla inesorabilmente, dalla Grecia al Portogallo, all’Italia. Dal trickle-down siamo passati al trickle-up : così oggi i ricchi continuano a diventare sempre più ricchi. Le nazioni ricche – a costo di essere ripetitivo – devono dimenticare la crescita per salvare il pianeta.
La politica, i sindacati e lo Stato più in generale sono in crisi. Cosa si potrebbe fare se tutto d’un colpo fosse possibile resettare modelli e paradigmi di governance?
La convinzione e il coraggio dipendono dai politici, mentre il consenso solo dal popolo. A livello teorico è molto facile uscire dall’Austerità, ma concretamente si devono mettere in atto diverse azioni. Fondamentalmente tre: bisogna rilocalizzare, riconvertire e ridurre. Rilocalizzare significa demondializzare. Con la caduta del Muro di Berlino si sono inaugurati gli anni della onni-mercificazione. Dalla guerra fredda si è passati ad una guerra economica su scala globale, un conflitto che fa sì che, ad esempio, migliaia di contadini cinesi siano espropriati dalle loro terre per dragare acqua per l’industria, per quelle fabbriche cinesi che tolgono lavoro anche alle imprese bergamasche. E’ questa una delle ragioni per cui un Paese deve esportare il minimo possibile. Le idee devono superare il più possibile i confini nazionali, ma i capitali per nulla. Non significa cadere nell’autarchia o nel protezionismo, una sorta di vero e proprio tabù, ma almeno l’80 per cento della produzione deve restare nel territorio. Anche perché per far circolare merci si costruiscono infrastrutture che distruggono il territorio, come la Tav.
Il secondo punto è quello della riconversione. Bisogna riconvertire l’energia, soprattutto. Oggi dovremmo lasciare tutto il petrolio sotto terra sennò, come annunciano alcuni recenti studi, il 2050 coinciderà con la fine dell’ umanità, se andiamo avanti a questi ritmi. Quanto al terzo punto, il libero scambio significa lasciare una volpe libera in un pollaio. Ecco, ora la volpe è cinese e si muove liberamente nel pollaio europeo.
Expo ha a tema la sostenibilità: cosa ne pensa?
Expo ha visto le imprese multinazionali prendere il sopravvento sulle imprese davvero sostenibili, sulle piccole produzioni giuste e pulite, come le definisce l’amico Carlo Petrini. L’agricoltura va riconvertita perché è troppo produttiva. I concimi chimici e i pesticidi distruggono la vita nel suolo. Certo i primi raccolti segnano una sorta di miracolo, come quello della prima rivoluzione verde, ma poi anno dopo anno si arriva progressivamente alla desertificazione. Solo l’ agricoltura biologica potrà nutrire il pianeta. Bisogna riconvertire l’industria della macchina e della guerra. E poi ridurre. Anche gli orari di lavoro. Lasciando perdere gli slogan irreali della politica, a partire dalla mia francese, del “lavorare meno per guadagnare di più”, totalmente farlocco, io sostengo oggi come non mai di “lavorare meno per lavorare tutti e per vivere meglio e ritrovare il senso della vita”. Si può inventare un futuro sereno fuori dalla gabbia di ferro dell homo oeconomicus.
La sinistra scettica le contesta spesso di predicare un mondo più povero, in cui si cerca di fare qualcosa di mai fatto nella storia dell’umanità. La decrescita porta con sè anche una certa nostalgia per il mondo rurale? Magari anche per la sua Bretagna?
Nella critica alla decrescita ne ho sentite di ogni. Il punto è che la povertà è un’invenzione moderna, perchè la povertà suppone l’esistenza dell’ economia. In Africa, ad esempio, prevale la solidarietà. Quello che io sostengo e invoco e l’ “abbondanza frugale”, che – ribadisco – non è un ossimoro. Ci hanno inculcato l’ idea della Affluent Society, ma la nostra economia è fondata sulla scarsità e sullo spreco elevato. E’ qualcosa che in un certo senso ricorda l’austerità rivoluzionaria di Enrico Berlinguer. C’è un libro , molto interessante, dal titolo “Età della pietra età dell’ abbondanza” in cui Marshall Sahlins ha proposto una visione del tutto diversa: le società di cacciatori-raccoglitori del paleolitico erano società dell’abbondanza, dove poche ore di lavoro al giorno bastavano alla sussistenza mentre il resto del tempo era dedicato al gioco e alla vita sociale. Un giornalista mi ha chiesto se vorrei tornare all’età della pietra. E io gli ho risposto che in realtà mi piacerebbe andare molto più indietro nel tempo rispetto all’età della pietra. Vorrei vivere un’era in cui si fa l’amore e non la guerra, nemmeno, anzi men che meno, quella economica. Una società con meno oggetti inutili significa essere più ricchi di altre cose, tanto per cominciare più acqua pulita e molto più tempo libero.
Non finiremo nella decrescita comunque senza averlo scelto?
Io credo che non si debba aspettare una catastrofe che ci ricordi che ormai è troppo tardi. E’ chiaro che se il potere continua ad andare dritto per una via – sbagliata – sia difficile invertire la rotta. Ma la storia insegna che cambiare si può. Che si può creare una dissidenza più forte del potere, una rivolta dal basso contro il sistema dominante. In Italia esiste un certo dibattito a favore della decrescita. E io dico che siamo ad un bivio, siamo di fronte ad una scelta: o eco socialismo o barbarie. La decrescita non si fa per caso, ma una scelta di questo tipo si può incoraggiare. Il progetto della decrescita non è ricetta ma un orizzonte di senso. E in questo campo vediamo movimenti come i Gas di quartiere, la stessa Slow -Food che traducono in pratica questa scelta.
Cosa pensa dell’Unione Europea?
E’ una tragedia. Non è facile per Paesi celibi unirsi in matrimonio. L’Ue è sbagliata sin dalle fondamenta: prima bisogna fare un’unione politica e culturale e solo poi economica. Però la fiscalità deve essere unica e anche la legislazione. Sennò ci troviamo di fronte ad un’unione finta come la Jugoslavia di Tito. L’allargamento senza una base solida è impossibile e l’Europa sta diventando un mostro ingestibile. Di certo la moneta unica era l’ ultima cosa da fare. Ora l’Unione può esplodere da un momento all’altro. Un’alternativa potrebbe essere rappresentata dalla creazione di un’Europa Latina.
Scritto da Laura Bernardi Locatelli
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