Lo scetticismo sugli effetti dei cambiamenti climatici ormai non trova più posto. Con il 21% della superficie a rischio, di cui il 41% al Sud, l’Italia è lo Stato che in Europa risente di più dei cambiamenti climatici.
“Se non modifichiamo l’approccio nei confronti del suolo e dell’agricoltura il nostro Paese dovrà fare i conti con un territorio sempre più impoverito e perfino desertificato”, spiega Mauro Centritto, ricercatore del Cnr, durante la conferenza ‘Siccità, degrado del territorio e desertificazione nel Mondo’ che si è tenuta all’interno del Padiglione Italia ad Expo 2015.
Il pericolo è concreto, ma non bisogna immaginarsi la Sicilia (la regione più esposta) come una scatola di sabbia simile alla Libia. La desertificazione avviene quando il terreno perde fertilità, quando cioè i suoi nutrienti scompaiono e la vita microbiologica, che rende possibile la crescita delle piante, si estingue. L’Italia deve contrastare questo fenomeno e adattare i propri metodi di coltivazione se non vuole mettere a rischio non solo il settore economico, ma anche la sicurezza alimentare degli italiani.
Ma perché le zone del sud Italia, da sempre secche, si stanno inaridendo progressivamente? Il primo imputato è il cambiamento climatico che ha ridotto le precipitazioni, soprattutto durante i mesi estivi. Ne sa qualcosa la California, dove ormai da anni la pioggia è scomparsa.
Ma il secondo imputato dell’impoverimento del suolo è l’agricoltura stessa. “Una errata irrigazione può portare alla salinizzazione del terreno e ad un dilavamento dei nutrienti”, continua Centritto. “L’utilizzo massiccio di fertilizzanti uccide i microrganismi presenti nel suolo, mentre spesso assistiamo ad un compattamento del terreno che ne riduce la permeabilità e provoca dilavamento, oltre ad aumentare il rischio idrogeologico”.
Ma è proprio dall’agricoltura che può arrivare un importante aiuto per rallentare la desertificazione. Certo, i cambiamenti climatici sono un fenomeno globale che può essere affrontato solo con politiche a livello mondiale (l’appuntamento è a dicembre, alla conferenza di Parigi), ma per i coltivatori cambiare approccio nei confronti dell’agricoltura è la migliore chance per resistere alla desertificazione.
“Stiamo parlando di agricoltura conservativa o di agro-ecologia”, spiga Centritto. Bisogna prima di tutto abbandonare l’agricoltura intensiva che punta alla massimizzazione dei raccolti nel breve periodo, ma che non tiene in considerazione la salvaguardia del suolo. Dall’agricoltura biologica e da quella di precisione può arrivare un aiuto importante. Nel primo caso perché la salute del terreno viene messa al primo posto. Nel secondo perché si cerca di massimizzare la produzione minimizzando l’intervento antropico. Meno fertilizzanti, acqua e agrofarmaci e solo quando e dove serve.
All’incontro di Milano il Crea, rappresentato nell’occasione da Guido Bonati, ha presentato le più recenti novità nelle tecnologie di telerilevamento applicate al monitoraggio della desertificazione e del degrado del suolo, in modo specifico per l’erosione.
I sensori satellitari più recenti usciti dai laboratori di ricerca consentono infatti di indagare con grande precisione aree di dimensioni ridotte e a costi limitati. Queste tecnologie sono state adottate dai ricercatori del Crea per la determinazione del rischio di erosione ai fini della applicazione della Politica agricola comunitaria, ma possono essere estese su larga scala anche per gli studi sul degrado ambientale.
La sfida per l’Italia è enorme. Epocale per l’intero pianeta. In totale 110 Paesi sono colpiti dalla desertificazione: non sono esenti giganti come gli Stati Uniti, la Cina o il Brasile. Ogni anno si perdono 12 milioni di ettari di terreno, un’area equivalente alla superficie cumulata di Sicilia, Sardegna, Piemonte, Lombardia e Toscana. Ma il dramma, oltre ad essere ecologico, è umano. Si stima che nelle aree aride vivano circa due miliardi di persone, una marea umana che non esiterà a riversarsi sulle frontiere dei Paesi più sviluppati in cerca di cibo e possibilità di sopravvivenza.
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