Gli ultimi dati sulla vendita di fertilizzanti organici, rilevano un calo significativo delle vendite, di contro gli ultimi dati sul biologico parlano di aumento di operatori e superfici investite.Sarebbe bello poter dire che le aziende applicano talmente bene il metodo biologico che la gestione agronomica delle rotazioni, l’uso dei sovesci, l’approvvigionamento di letame e materiale organico da trasformare in compost, sono talmente migliorate e aumentate da rendere le aziende meno dipendenti, dall’apporto extra aziendale di fertilizzanti organici
Purtroppo sappiamo che in molti casi non è così e non per colpa delle aziende ma per l’assenza cronica di una scuola di agricoltura biologica, la carenza di ricerca e la sparizione di tecnici dal campo. E’ vero che stiamo attraversando un periodo difficile e che anche i fertilizzanti più semplici quali gli stallatici o le polline, hanno avuto aumenti non sempre spiegabili ma è altrettanto vero che la spesa per i fertilizzanti e la fertilizzazione in generale, è uno dei primi tagli che l’azienda fa credendo di risparmiare.
In biologico, non curare la fertilità del suolo, anche risparmiando sull’acquisto di fertilizzanti organici extra aziendali, non solo è una pessima applicazione del metodo ma, di fatto, non corrisponde nemmeno ad un risparmio.
Com’è noto nel metodo biologico, la fertilizzazione si basa sul bilancio umico e non su quello dei nutrienti potenzialmente utilizzati dalla coltura calcolati su produzioni presunte.
Il bilancio umico è però alimentato dalla riuscita di ogni singola coltura che, al prodotto finale, destinato alla vendita, abbina produzione di biomassa da restituire al terreno, in termini di residui e radici, la cui abbondanza è ovviamente proporzionale alla resa della coltura; in sintesi a rese basse corrispondono basse restituzioni.
La vitalità dei microrganismi del suolo, i principali collaboratori aziendali, è strettamente legata alla quantità e qualità di SO(sostanza organica) immessa, così come l’azione sinergica con l’apparato radicale dipende anche dal suo sviluppo e la conseguente capacità di esplorare ampi strati di suolo.
Poi c’è la capacità di competizione con le infestanti che è completamente diversa tra una coltura vigorosa capace di colonizzare gli spazi del sopra e del sottosuolo e una stentata e lenta nello sviluppo.
Il danno non si limita a risultati scadenti, ma a problemi di raccolta e conservazione per presenza di umidità, a maggiori costi di vagliatura, a deprezzamento del prodotto e, cosa grave, a rendere perpetue piante così dette indesiderate che disseminando si garantiscono la persistenza nell’area, inficeranno il lavoro degli anni successivi.
Inoltre, soprattutto per le piccole aziende, rese basse comportano una massa critica di prodotto aziendale che non giustifica i costi di trasporto, costringendo a vendere sul mercato convenzionale a prezzi più bassi.
Infine c’è da mettere anche in conto che prodotti che non hanno trovato il giusto nutrimento, difficilmente possono vantare qualità organolettiche e nutrizionali superiori di cui spesso ci vantiamo.
Queste brevi considerazioni evidenziano come l’aver rinunciato alla fertilizzazione più che un risparmio è un clamoroso autogol, anche perché da un banale conto economico, benché semplicistico, è facile rilevare un investimento sulla coltura nella situazione di mercato attuale è abbondantemente ripagato e, tra l’altro, coperto dal premio ad ettaro del PSR che, è bene ricordare, è concesso anche per coprire i maggiori costi che il metodo biologico comporta.
Sarebbe utile aprire come movimento, una seria riflessione su questo tema affrontando la questione in termini di metodo e di valore di questo nel sistema rurale.
Vincenzo Vizioli
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