Dai GAS ai CAPS, dai gruppi d’acquisto solidale alle comunità di produzione basate sui medesimi principi: è il passo in avanti verso una forma sempre maggiore di sostenibilità che stanno facendo tante comunità in Italia. E’ il caso della Comunità Agricola di Promozione Sociale di Pisa, che conta una quarantina di persone e che ha iniziato producendo da sé gli ortaggi da consumare. A tre anni dall’avvio di questo sodalizio, è Bruno Mazzara a fare un bilancio.
A fare il punto sull’esperienza della Comunità Agricola di Promozione Sociale di Pisa è il suo presidente, Bruno Mazzara, docente di psicologia sociale all’università di Roma. La Caps di Pisa non è l’unica realtà che si muove in questo senso, è una delle numerose che stano sorgendo e che, ciascuna nel proprio contesto e con le proprie caratteristiche, possono essere fonte di ispirazione e d’esempio.
Come avete iniziato e come si è evoluta questa esperienza in questi primi anni?
«La Caps Pisa è al suo quarto anno di attività. La nostra esperienza, che mira a superare il concetto di Gas, si avvicina ad una CSA, vale a dire un’esperienza di Agricoltura Supportata da una Comunità. In una prima fase, per tre anni, abbiamo preso in affitto un terreno, che è stato coltivato da uno di noi a tempo pieno con l’aiuto, a rotazione, di tutti gli altri. E’ stata un’esperienza molto bella, che però ha richiesto un notevole impegno in termini di tempo di lavoro di noi tutti, che non sempre siamo stati in grado di dare. Così quando è venuta meno insieme la disponibilità di quel terreno e del nostro socio contadino, abbiamo deciso di cambiare modalità organizzativa. Abbiamo preso contatto con un’azienda agricola (Il Girasole, di Pierluigi e Gianluca Banti) che ha avviato un coraggioso progetto di agricoltura sinergica, un metodo decisamente innovativo, che rispetta gli equilibri naturali tra le piante e la fecondità del terreno. Presso questa azienda abbiamo “adottato” un congruo numero di “bancali” (le collinette di terra su cui si svolge l’agricoltura sinergica), che abbiamo contribuito a costruire e che coltiviamo insieme ai due proprietari, concordando la sequenza delle colture e i ritmi di raccolta. In questo modo, ciascuno dà il tempo di lavoro che può e vuole dare, dal momento che comunque l’azienda esiste anche a prescindere da noi».
Quali sono i principi ispiratori della vostra scelta e le necessità cui volete dare risposta?
«L’obiettivo della CAPS è quello di realizzare un modello di co-produzione del cibo che superi la tradizionale contrapposizione fra consumatori e produttori e permetta di condividere conoscenze, responsabilità e scelte di produzione e consumo. Il tutto inquadrato in una nuova cultura della terra e dei suoi frutti, che si richiama a principi generali di sostenibilità ambientale, ma anche di giustizia sociale e di partecipazione. Infatti, come nelle altre CSA, i soci della CAPS si impegnano a sostenere economicamente l’azienda agricola, godendo dei prodotti del campo, ma condividendo il rischio di impresa. Il versamento di una quota mensile consente infatti di garantire all’agricoltore un reddito stabile, indipendentemente dall’andamento della produzione. A fronte di questa quota e del lavoro di supporto, il socio riceve settimanalmente una “busta” di verdure variabile (per quantità e tipologia) in base alla disponibilità. La nostra vuole essere tuttavia anche una vera Comunità, che ha la produzione di buone verdure (rigorosamente biologiche) solo come uno dei suoi obiettivi. Il lavoro al campo ci dà l’opportunità di approfondire la conoscenza delle pratiche colturali, e di renderci conto delle difficoltà dell’agricoltura di piccola scala. Ma oltre a questo, abbiamo imparato a recuperare il valore della dimensione sociale, legata da un lato ad un sano rapporto con il cibo, e dall’altro allo sforzo di costruire insieme nuovi modelli di impresa collettiva. In questo senso, la nostra Comunità si pone anche come una risposta ad un bisogno condiviso di “alternative” nelle modalità di soddisfacimento dei propri bisogni quotidiani. La nostra prospettiva è ovviamente quella di aumentare il numero delle adesioni, per ottenere una produzione più abbondante e di qualità, ma anche per diffondere una diversa cultura della terra e del cibo (per informazioni visitare il nostro sito o scrivere a [email protected] ).
Ma la comunità agricola non è che uno dei progetti in cui si declina un vero e proprio distretto dell’economia solidale, un’alleanza di persone mosse da obiettivi comuni. Quali sono gli altri aspetti? Come vi siete organizzati e quale volto avete dato al vostro Des?
«Il DES Altro Tirreno è nato dopo diversi anni di elaborazione e di costruzione delle relazioni. L’economia solidale dovrebbe essere infatti principalmente un’economia delle relazioni. Abbiamo scritto collettivamente una carta dei principi, che non fotografa la realtà, ma che impegna al cambiamento in un processo che richiede tempo, perché tutti siamo inseriti in un contesto che condiziona pesantemente le scelte. Il DES è attualmente un’associazione di secondo livello, a cui hanno aderito imprese del privato sociale, produttori, associazioni. Cerchiamo anzitutto di scambiare (esperienze, servizi, aiuto reciproco) e di coordinare questa parte del mondo dell’economia solidale. Cerchiamo di crescere nella elaborazione, come è successo per il gruppo sulla questione animale. Promuoviamo progetti (è partito un percorso verso una Mutua di Auto Gestione) e sosteniamo quelli in difficoltà, come la stessa CAPS».
Da tempo si va ampliando una rete di Des in Italia. I numeri sono incoraggianti? Come e perché possono cambiare le cose e i meccanismi di una società dove il modello consumistico e capitalistico sta implodendo?
«Il panorama è interessante, ci sono tantissimi buone pratiche, anche se ancora a macchia di leopardo. Ma la rete si sta infittendo, e si sta superando la dimensione in cui i DES sono nati, ovvero quella di una sorta di semplice coordinamento tra Gruppi di Acquisto Solidale. Ovviamente non è facile dare continuità a esperienze che si basano sul volontariato e richiedono pazienza e costanza. Si deve imparare a gestire i conflitti che inevitabilmente nascono, anche all’interno, e che sono esacerbati dalle conseguenze di questa lunghissima crisi economica. È una palestra per l’applicazione concreta dei principi di nonviolenza a cui molti di noi cercano di riferirsi. Al di là delle difficoltà, il lavoro che viene fatto è prezioso per ricostruire davvero una coesione sociale che sembra scomparsa. Senza illudersi troppo, non è però marginale la possibilità di generare nuove (o antiche) forme di occupazione, sia per chi è ai margini da sempre, sia per chi improvvisamente è stato escluso dal circuito lavorativo».
di Giovanni Fez
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